-------- Un intervento di Silvia Calamandrei a Cinisello Balsamo – Biblioteca Montepulciano Calamandrei
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Un intervento di Silvia Calamandrei a Cinisello Balsamo

Intervento della nostra Presidente Silvia Calamandrei a Cinisello Balsamo, sabato 14 novembe 2015

Dieci anni fa fui invitata a Cinisello da Patrizia Rulli, in occasione di una serie di iniziative sulla Costituzione in preparazione del referendum che si sarebbe tenuto nel 2016: il Comune di Cinisello aveva voluto offrire alla cittadinanza strumenti di conoscenza per partecipare in maniera consapevole alla scelta tra la revisione ampia proposta ed il testo adottato nel 1948, invitando una serie di giuristi, costituzionalisti, politici, storici ad illustrare gli articoli della Costituzione, coinvolgendo anche alcuni dei costituenti ancora presenti per rievocare il clima in cui era maturato quel testo.

Fu l’occasione per rievocare la figura di Piero Calamandrei come Costituente e strenuo difensore della Costituzione, fino al suo discorso milanese ai giovani del 1955, in cui commentava gli articoli ed invitava a non essere indifferenti alla politica. Ebbi allora la gioia di incontrare alcuni di quegli studenti che lo avevano invitato, e l’ANPI di Cinisello ebbe la felice iniziativa di riprodurre in DVD quel discorso, uno dei pochi registrati di Calamandrei, che era anche grande oratore. Nelle interviste che arricchiscono il video, si spiega come mai alla metà degli anni Cinquanta ci fosse bisogno di far conoscere e spiegare la Costituzione, e come mai larga parte di essa fosse ancora inattuata, e come la battaglia per attuarla potesse ancora dirsi non conclusa.

Quel video ha molto circolato in questi dieci anni in Italia, anche dopo che il referendumn del 2006 ebbe bocciato il progetto di revisione costituzionale. L’ho portato con me in tante iniziative nelle scuole e nei comuni, ed ancora ci viene richiesto, anche se nel frattempo altri video sono stati prodotti e montati su quel discorso, che è restato attuale ed è stato rilanciato nel corso del dibattito per la difesa della scuola pubblica, coniugandosi ad altri discorsi di Calamandrei degli anni Cinquanta, non ultima l’arringa in difesa di Danilo Dolci e del diritto al lavoro sancito nella Costituzione.

Sono dunque particolarmente grata agli amici di Cinisello per essere stati i capofila di una valorizzazione del contributo di Calamandrei alla democrazia e alla partecipazione politica:  la loro poté essere considerata l’inaugurazione delle celebrazioni del cinquantesimo dalla morte di Calamandrei, che nel 2006 si tennero sia a Firenze che a Montepulciano che a Roma.

Durante i dieci anni trascorsi,  alla condivisione di un impegno “di cittadinanza” si è affiancato un impegno ed un partenariato di carattere culturale che ha visto la trasformazione della Biblioteca di Montepulciano in istituzione intitolata a Piero Calamandrei e la creazione a Cinisello del Centro culturale intitolato a Sandro Pertini: ci sono state dunque altre occasioni di collaborazione e quest’anno l’invito a partecipare alla mostra dedicata al centenario della partecipazione italiana alla Grande Guerra, prendendo spunto da uno scritto degli anni Cinquanta in cui Calamandrei rievoca il suo primo processo, da giovanissimo avvocato che si trova a difendere soldati disertori.

E’ un episodio cui accenna in una sua lettera ad Ada Cocci, la fidanzata, il 4 luglio 1916:

Sono costretto anche oggi a scriverti su un mezzo fo­glio… Ma non ti devi adirare, perché proprio non ho tem­po oggi, di scriverti per bene. Tornai dal Pasubio ieri sera alle 11, stanco e insonnolito; ma, appena giunto, fui chia­mato dal mio colonnello il quale mi annunciò che stamani alle dieci doveva aver luogo alle Dolomiti un tribunale straordinario di guerra contro nove soldati accusati di diser­zione, e che incaricava me della difesa. Ora se tu pensi che il reato ammette una sola pena: la fucilazione imme­diata, intendi che questa comunicazione non valse a favorire il mio riposo di stanotte. Stamani mi sono alzato presto per leggere il codice militare senza sapere nessun particolare dei fatti oggetto del processo. Poi il processo è stato rinviato: di poche ore, s’intende, o a stasera o a domattina. E di que­sto tempo bisogna che profitti.

Non ci torna sopra nella corrispondenza, forse per ragioni di censura, ma l’episodio viene rievocato da C. stesso nell’articolo Castrensis jurisdictio obtusior, pubblicato su  «Il Ponte », nel marzo 1956.

Come mai alla fine della sua vita è questo il ricordo più vivo che emerge e vuole rievocare a proposito della Grande Guerra? Non è sicuramente il felice espediente procedurale che vuole vantare di aver trovato per evitare una condanna a morte (anche se mi è capitato di sentirlo esaltare dall’Avvocato Coppi, che di espedienti procedurali è un maestro), ma piuttosto l’immagine di quei soldati mandati alla ventura, inconsapevoli, attoniti perfino di fronte alla scampata fucilazione, che gli è impressa nella memoria.

Calamandrei era partito con relativo entusiasmo nell’estate del 1915, convinto delle ragioni della guerra contro gli Imperi centrali, in nome del completamento del Risorgimento e della lotta contro i sistemi autoritari. Un interventista democratico che ha condiviso con il Giornalino della domenica di Vamba la diffusione tra i ragazzi della propaganda per il recupero di Trento e Trieste e che solo a contatto coi soldati comincia a rendersi conto di quanto poco quelle tematiche siano diffuse tra i fanti contadini.

Calamandrei si farà propagandista attivo della guerra dopo la crisi di Caporetto, assegnato al Servizio P che recluta tanti intellettuali democratici nello sforzo di passare da un sistema meramente autoritario di catena di comando repressiva ad un sistema pedagogico di persuasione, da Cadorna a Diaz, da Caporetto a Vittorio Veneto. La capacità oratoria che si era scoperta commemorando Cesare Battisti di fronte ai soldati, viene utilizzata per galvanizzare il morale delle truppe, con una propaganda ed una formazione indirizzata soprattutto agli ufficiali, ai quali si insegna “come parlare ai soldati”.

Tra le carte del Servizio P, il servizio di propaganda creato sotto Diaz a cui partecipano intellettuali come Lombardo Radice e Salvemini, si ritrova questo consiglio di Calamandrei  ai giovani ufficiali:

“Ti avverrà talvolta di udire un soldato che ragiona così: «La guerra l’hanno voluta i ricchi. Io son povero e vivo col lavoro delle mie braccia: si vinca o si perda, che cosa può darmi la vittoria, che cosa può togliermi la sconfitta? Vincere o perdere per me è la medesima cosa». A questo soldato[…]devi raccontare con calma questa storiella:….”[2].

Ed ecco evocata forse per la prima volta la storiella dei due contadini emigranti sul bastimento, nel mare in tempesta. Con Gianni che dice a Beppe che non gliene importa, tanto il bastimento non è suo…. E’ una storiellina di cui Calamandrei si servirà tante volte per riferirsi al bene comune da salvare: nel 1940 per invocare la sopravvivenza del diritto, della legge uguale per tutti, nel 1955 per combattere l’indifferenza politica.

In questa relazione dell’aprile 1918, Calamandrei invita in nome del bene della patria a combattere la disaffezione ed il pacifismo diffuso. Ma nei discorsi del dopoguerra, negli anni tumultuosi che precedono l’avvento del fascismo, metterà sempre più l’accento sulle responsabilità di una borghesia e di una classe dirigente che non avevano fatto nulla per creare nei contadini e negli operai un sentimento di appartenenza a quella patria. E dedicherà molte energie a proposte di riforma non solo della giustizia ma anche dell’insegnamento, persuaso che nella educazione stesse il fondamento della democrazia.

Ne parla in una conferenza del 1921 “alle signore senesi”[3], invitando la borghesia italiana ad un esame di coscienza, anche di fronte alle insorgenze del biennio rosso:

“Orbene, o signore, facciamo con serenità il nostro esame di coscienza: si può dire che la classe dirigente italiana abbia fatto, in un cinquantennio di governo, il suo dovere verso il suo popolo? Limitiamo la  nostra indagine a uno solo dei compiti che avrebbe dovuto essere fervorosamente adempiuto da una borghesia illuminata: parlo della scuola primaria. Oggi è di moda sospirare ed imprecare sulla ignoranza del popolo: si accusano, e ben a ragione, i socialisti di speculare sulla pecorile dabbenaggine delle masse, ch’essi sfruttano e inebriano a forza di utopie apocalittiche. Ma, di grazia, signori miei, mi sapete dire che cosa ha fatto in cinquant’anni la borghesia italiana per redimere le masse da questa ignoranza? Qualcuno potrebbe ingenuamente replicarmi che in Italia esiste per tutti i cittadini l’obbligo della istruzione elementare, e che le scuole sono aperte gratuitamente a tutti i volenterosi. Ma voi non dovete appagarvi di considerare superficialmente quello che accade nelle grandi città: dovete soprattutto domandarvi se e come le scuole funzionano nelle campagne, per i contadini, per questo gran popolo agricolo che forma la forza e la sanità d’Italia; dovete domandarvi se lo Stato cerca veramente di attirar con amore nelle scuole i figli dei lavoratori della terra, se dà loro scuole degne di questo nome, se veramente si cura di ripagarli, in cambio del pane ch’essi ci danno,  con un po’ d’educazione civile e un po’ di solidarietà spirituale…”.

L’argomentazione è rafforzata dall’esperienza personale della guerra:

“Chi ha fatto la guerra in mezzo ai plotoni dei lavoratori dei campi, non può dimenticare che la pagina più sublime di tutta quella grande epopea fu l’eroismo semplice e inconsapevole di quei contadini analfabeti, che andavano a morire per una idea di Patria che nessuno ad essi si era curato di insegnare. La patria: parola santa, o signore, che ci prende alla gola quando la pronunciamo, che ci è così cara che non possiamo udirla ingiuriare come non potremmo tollerare l’ingiuria diretta alla nostra madre, parola che è diventata ormai la fiamma del nostro pensiero, il fuoco ispiratore di tutti i nostri affetti. Ma questa parola o signore ce l’hanno insegnata, a noi, la famiglia e la scuola: abbiamo fino da bambini impallidito apprendendo dalla bocca dei nostri genitori la storia dei martiri che si sono sacrificati per lei, abbiamo imparato la bellezza del suo cielo dagli inni dei nostri poeti, abbiamo appreso ad amarla appassionatamente sulle pagine di Dante e di Mazzini. E quando è venuta l’ora della gran prova, era naturale che coloro per i quali l’idea di Patria era diventata ormai sangue del loro sangue, partissero lieti pronti a morire per essa: essi intendevano qual grande tesoro era affidato al loro valore; sentivano quanto grande era la religione per la quale andavano ad immolarsi.

Ma agli umili, agli analfabeti, ai contadini spersi nella Sicilia e nella Calabria chi aveva insegnato l’idea di Patria? Chi si era preso cura di andarli a cercare nel latifondo, nella maremma dove morivan di febbre, in fondo alla zolfara infernale dove si consumavano come dannati danteschi, di andarli a cercare per parlar loro fraternamente della grande madre ignota e pur presente, dell’Italia? La Patria era apparsa ad essi, per lunga tradizione, come una invenzione dei ricchi, sensibile per essi solamente sotto forma di agente del fisco o di carabiniere: e quando la guerra è venuta, e i figli dei campi sono stati chiamati a raccolta, qualcuno di essi ha potuto domandare a se stesso: “Che è dunque questa Patria per la quale andiamo a morire?”. Eppure sono partiti: hanno lasciato l’aratro a mezzo il solco, e sono partiti; e hanno riempito le trincee; e son scattati all’assalto; e hanno vinto… Per chi, signore, per chi? Per questa Italia santa che nessuno aveva loro insegnato, che essi avrebbero potuto ignorare, e che pure nell’ora del pericolo, più per istinto che per ragionamento, si è miracolosamente rivelata alle loro anime incolte”.

E conclude:

“Signore, l’idea di patria non si impone colla forza, ma solo si insegna coll’amore. Fate, o signore, che per opera vostra le scuole rurali siano in grado di insegnare ai contadini questa grande, solenne realtà che è l’Italia, e vedrete che allora anche nelle più remote campagne, le croci dei caduti in guerra saranno per la pietà dei superstiti adorne dei tre colori d’Italia. Questo nostro Popolo buono e laborioso ha bisogno di aver la sensazione che le classi dirigenti non si servono delle ricchezze e della cultura per sfruttarle e per tradirle. Diamogli questa certezza: o altrimenti, se non ci sentiremo la forza di compiere questo apostolato di fraterna bontà, accusiamo noi stessi; soltanto noi stessi, se domani questo Popolo stanco si dimenticherà che esiste una patria”.

Se la vittoria del fascismo tronca i progetti riformistici degli ex combattenti democratici, le ragioni della Grande Guerra continueranno ad apparire valide e nobili a Calamandrei come a tanti altri dei suoi sodali di Giustizia e libertà e del Partito d’Azione: si pensi ai Rosselli, che avevano avuto un fratello caduto, a Ferruccio Parri, che fu tra gli estensori del piano di battaglia di Vittorio Veneto, ai fratelli Galante Garrone cresciuti nel culto degli zii Garrone  caduti al fronte.  Nello sdegno contro la guerra di Mussolini espresso nel Diario di Calamandrei, come ha rilevato Isnenghi nella introduzione alla riedizione del 2015[4] c’è anche nostalgia per la Prima guerra, combattuta dalla parte giusta, mentre ora si colpisce a tradimento la Francia e si bombarda l’Inghilterra:  “Ah  l’Italia del Piave,  dov’è  finita  l’Italia del Piave?”, sembra chiedersi Calamandrei.

Sarà l’esperienza della guerra totale che investe le popolazioni civili e devasta i territori, le città, i paesaggi ed i monumenti cari che farà maturare i sentimenti pacifisti di Calamandrei, e soprattutto Hiroshima, la percezione della capacità di autodistruzione acquisita dalla scienza e dalla tecnologia.

Già all’indomani di Hiroshima, nell’articolo Cinquantacinque milioni, pubblicato sul Ponte nel settembre 1945[5], Calamandrei aveva indicato nella bomba atomica il “simbolo riepilogativo, la morale di un apologo” e aveva stigmatizzato” la gara di follia per carpire al sole il segreto degli atomi”, preannunciando che “basterà qualche ritocco all’invenzione per avere a portata di mano l’arma onnipotente, pronta ad annullare tutto il genere umano, vincitori e vinti, in uno scoppio solo”.

Di fronte a questa prospettiva e interrogandosi sul senso della carneficina della seconda guerra mondiale si augura che la coscienza umana risulti arricchita da un sentimento di solidarietà che unisce individui e popoli: la bomba atomica diventa “argomento inconfutabile dell’interdipendenza tra i popoli”: “dall’interdipendenza nella morte deve nascere la coscienza mondiale della interdipendenza di tutti gli uomini nella vita”. Il dilemma che si pone è: “o la pace nella giustizia o l’esplosione cosmica nell’infinito di questa folle bolla di sapone iridata di sangue”.

Di qui l’impegno contro i blocchi negli anni Cinquanta, il voto contro il Patto Atlantico, ed una riflessione sulla sua esperienza che lo porta a valorizzare quegli umili inconsapevoli che si era trovato a difendere dal giovane avvocato.

E dunque ci pare coerente rievocare con la riedizione de Il mio primo processo[6]  il suo ruolo nella riflessione apertasi con il centenario, richiamando l’attenzione delle nuove generazioni sul ritardo con il quale l’Italia ha reso l’onore ai tanti condannati per diserzione ed ai tanti prigionieri di Caporetto ignorati dalle nostre autorità quando erano internati nei campi in Germania.

Un altro libro pubblicato in occasione del centenario mi fa piacere menzionare, Rancio mescoli due di acqua e rape, che fa parte di quella documentazione che a livello locale in tutta Europa si sta cercando di far emergere, anche con le mostre come quella organizzata a Cinisello e quella che la nostra Biblioteca sta cercando di costruire con le scuole di Montepulciano.

Le celebrazioni dedicate alla Grande guerra nel nostro Comune toscano si sono aperte nell’agosto scorso proprio con la presentazione di questo libro,un memoriale messo generosamente a disposizione  da una famiglia di Valiano che l’ha gelosamente custodito per un secolo. Sono le annotazioni di un vinto di Caporetto, uno di quei trecentomila che furono fatti prigionieri e trasferiti in campi di lavoro in Germania, e che furono condannati alla damnatio memoriae da uno Stato che negò loro perfino i soccorsi della Croce Rossa, sottoponendoli ad umilianti interrogatori al ritorno dalla prigionia per accertare se potessero essere condannati come “disertori”.

Il diario di Ferruccio Cavallaro, che ossessivamente annota a futura memoria i dati essenziali delle sue giornate, nel suo semplice linguaggio di fante, ci fa partecipare alla sofferenza della fame, che accompagna perennemente i prigionieri.

A giusto titolo i curatori Graziano Tremori e Gianfranco Santiccioli hanno intitolato il libro al rancio, perché in un’epoca come la nostra di abbondanza e spreco di cibo, di slow food e caccia ai prodotti di nicchia, l’attenzione ossessiva dedicata ai “mescoli” di rancio è quanto colpisce di più. I ricordi più belli sono la “nostra buona Pastasciutta” e le mangiate a Montepulciano nei giorni di festa:

Risotto- Frittelle Vino- fritto- paste- e ubbriacarsi- Cantando a pancia piena e ballare con gran divertimenti- Bei Ricordi ed ora invece sono qui affamato- debole che appena stò in piedi- e mezzo morto di freddo!.

I curatori della pubblicazione delle agendine di Ferrucio Cavallaro hanno ricostruito che dopo il rientro in Italia fu tra i tanti messi in quarantena e sottoposti ad interrogatorio a Macerata, nella primavera del 1919, prima di poter tornare in famiglia.

Forse anche a lui era destinato un discorso che Piero Calamandrei preparò per i Caduti poliziani e che non fu mai pronunciato.  Lo  conserviamo nel nostro Archivio[7] e lo stiamo riproponendo ai ragazzi delle scuole.  La commemorazione è incentrata sui fanti contadini, coloro che sono morti senza sapere perché, e costoro gli riaffiorano alla memoria alla fine della sua vita.

Non aveva dovuto attendere tanto per rendersi conto che la partenza gioiosa del 1915 era stata offuscata dall’esperienza del fronte. Ne troviamo traccia, oltre che nella corrispondenza quasi quotidiana con Ada, ed in una famosa lettera all’amico Gatteschi ,in un discorso pronunciato a Siena nel 1923, in occasione del conferimento di medaglie al valore agli ufficiali:

Ah, compagni d’arme, ora che la guerra è finita colla vittoria possiamo ben dirlo: non tutte le partenze e non tutti gli addii sono stati pieni di ebbrezze, pieni di giocondità, pieni di festa, come quella prima partenza del maggio 1912, quando tutte le piazze d’Italia palpitavano di tricolori e di canti e tutti s’aveva paura di arrivar troppo tardi…

E rievoca le brevi licenze, “pause di sogno nella dura realtà della trincea” e le ripartenze :

La tradotta, lunga lugubre come un convoglio funebre, piena di soldati che tornavano in su: la stazione immersa nelle ombre notturne, con qualche lampione fioco e giallastro tra la pioggerella invernale…Le ultime strette, le ultime promesse.  Si cercava di ridere: «Sciocca, non è mica detto che tutti alla guerra si debba morire»… E poi lo squillo di tromba… Ancora una stretta di mano dal finestrino…  Eppoi un’ombra laggiù sulla banchina…poi più nulla: e il cuore che martellava: si ritornerà?

Quando si cercava un titolo assieme a Patrizia Rulli è a questa complessa elaborazione di una drammatica esperienza  che ho pensato, elaborazione che continua fino alla fine di un’esistenza.

Per concludere sono lieta di donare alla vostra istituzione una china di ferro di Giulio Pellegrini ispirata ad una caricatura di Piero Calamandrei durante la Grande Guerra. Pellegrini vi aveva già fatto pervenire la china dedicata a Sandro Pertini, il presidente socialista da cui prende nome il vostro centro culturale. Ora viene ad arricchire la vostra mostra una china che abbiamo voluto dedicare al centenario della Grande Guerra, che anche a Montepulciano stiamo rievocando con uno sforzo di coinvolgimento della cittadinanza e soprattutto delle nuove generazioni.


[1] Originale nell’archivio di Montepulciano, pubblicato in Piero Calamandrei, Zona di guerra, a cura di Alessandro Casellato e Silvia Calamandrei, Laterza, Bari-Roma 2006.

[2] Ibidem, p. 259.

[3] Patria e educazione, conferenza su invito della sezione senese della Federazione nazionale donne italiane, Siena, 1921. Il manoscritto, conservato nell’Archivio Calamandrei a Montepulciano, è stato parzialmente edito in Piero Calamandrei, La lapide della discordia, Le Balze, Montepulciano 2006.

[4]  Edizioni di storia e letteratura 2015

[6] Edizioni Henry Beyle 2014

[7] Pubblicato in Zona di guerra, op. cit., pag.335 e segg.

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