-------- RECENSIONE. Giuseppe Filippetta, La repubblica senza stato, L’esilio della Costituzione e le origini della strategia della tensione – Biblioteca Montepulciano Calamandrei
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RECENSIONE. Giuseppe Filippetta, La repubblica senza stato, L’esilio della Costituzione e le origini della strategia della tensione

Giuseppe Filippetta, La repubblica senza stato, L’esilio della Costituzione e le origini della strategia della tensione, Feltrinelli 2024

Il saggio di Filippetta, denso e stimolante, ricostruisce la storia italiana dalla Costituente in poi attraverso il contrappunto tra principi costituzionali elaborati con forte impronta dossettiana, azionista e socialcomunista e l’apparato statale che dovrebbe metterli in opera ed invece li lascia inapplicati o addirittura li contrasta. Uno Stato che non applica la sua Costituzione e fa di tutto per lasciarla lettera morta.

Si parte dalla strage di Portella della ginestra del 1947 in contemporanea con l’affermazione alla Costituente da parte di Moro ed altri dossettiani di ambiziosi progetti di coinvolgimento delle masse popolari nello Stato, nonché con gli attacchi al latifondo delle riforme Gullo e poi Segni per mostrare come in Sicilia l’alleanza tra grande proprietà agraria, mafia, Chiesa e DC di Scelba si muova in senso opposto a contrastare ogni progetto riformistico. Forse la prima strage di Stato, all’alba della Repubblica, con depistaggi e falsificazioni mai chiarite fino in fondo.

Insomma la Repubblica è segnata fin dalla nascita da questa dicotomia tra Stato apparato che sviluppa anche articolazioni operative segrete in un connubio tra polizia, ministero degli interni, servizi segreti e collegamenti internazionali in funzione anticomunista: la Guerra fredda spinge al recupero anche degli eredi del fascismo e al loro riciclaggio.

Si descrive quindi come la ricostruzione dà il via libera al liberismo padronale nella repubblica “fondata sul lavoro”, contrastando e reprimendo l’anelito di autogestione e le esperienze di democrazia in fabbrica nate nella Resistenza.

La ricostruzione del paese, finanziata dal piano Marshall e sfruttata dal grande padronato, manda in esilio la Costituzione e si consolida con la politica repressiva scelbiana, i licenziamenti punitivi in fabbrica e i reparti speciali, le stragi come quella di Modena. I dossettiani sono emarginati nella DC e De Gasperi gestisce un’alleanza atlantista che trova nella Chiesa supporto ideologico nella battaglia anticomunista.

Filippetta attinge agli archivi, ai dibattiti parlamentari, alla stampa d’epoca, alla letteratura, ma anche ai documentari e film girati da registi come De Santis e Lizzani per documentare la resistenza operaia e contadina nelle fabbriche, nelle manifestazioni e negli scioperi, così come nelle roccaforti di solidarietà dal basso, soprattutto in Emilia Romagna: c’è un’altra Italia che cerca di affermare i principi sanciti della Costituzione che l’apparato statale ignora e disattende e trova forme di lotta come gli scioperi alla rovescia per affermare il diritto al lavoro, il diritto alla libera espressione, il diritto di sciopero.

Filippetta colloca la vera svolta sul crinale tra anni sessanta e settanta, con lo svilupparsi di grandi movimenti di massa che portano all’attuazione di una serie di riforme che inverano parti della Costituzione, dalle Regioni, al diritto di famiglia, al diritto allo studio, alla sanità, allo Statuto dei lavoratori. Ma di fronte a questi sviluppi lo Stato apparato si difende e sviluppa strategie eversive utilizzando il suo strumentario clandestino, contrastando la nascita di una democrazia partecipata che persegue la giustizia sociale.

Vittima di questo scontro è lo stesso Aldo Moro, la cui figura apre e chiude il volume.

Il 13 marzo 1947, alla Costituente, Moro parla di Resistenza, di rivoluzione, di democrazia integrale, di liberazione dell’uomo. Sostiene che la Resistenza è stata un’esperienza rivoluzionaria “non tanto perché si indirizza a sostituire sistemi economici superati, ma perché rappresenta l’ascesa irresistibile verso posizioni di responsabilità consentanee alla dignità umana di coloro che troppo a lungo furono esclusi dall’esercizio di un potere, il quale pur disponeva totalmente della loro sorte”.

Un’idea di “Repubblica emancipatrice” che gli sembra in via di realizzazione con il conflitto pluralistico esploso con il 68 e l’autunno caldo. In un discorso del ’69 ed in tanti altri dei primi anni Settanta citati da Filippetta, Moro indica nella Costituzione il faro attorno a cui legare insieme istituzioni, partiti e cittadini.

Filippetta coglie l’isolamento e la perspicacia di Moro, che saranno anche la sua condanna. La strategia morotea dell’attenzione al Pci prima e della solidarietà nazionale poi non sarebbe una “semplice intesa tra i partiti, ma coinvolgimento del Pci nella prospettiva del rafforzamento della democrazia italiana attraverso l’accoglimento delle richieste di partecipazione e di giustizia che salgono dalla società”.

La parte conclusiva del saggio è dedicata proprio al sequestro Moro, alle ambiguità di comportamento dello Stato apparato e dei brigatisti e al suo esito tragico, che pone fine al progetto di rinnovamento della democrazia italiana:

“Una fine che è un ritorno, il ritorno dell’egemonia privatista e dell’assolutezza del comando del capitale sul lavoro [citazione da Tronti]. La società “è rimessa al suo posto”, ne sono spente le dinamicità progressive e le aspirazioni di giustizia, tanto che scompare il tema dell’attuazione della Costituzione repubblicana, definitivamente sostituito da quello della riforma costituzionale e dell’efficienza del Governo”.

La Costituzione, conclude Filippetta, non solo resta in esilio, ma viene bollata come ostacolo alla “governabilità”.

Si apre la stagione dei ripetuti tentativi di modificare e accantonare i principi della Costituzione per puntare sull’efficienza dello Stato apparato. Ed è una stagione che stiamo ancora vivendo.

[Silvia Calamandrei]

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